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I genitori: Bisognerebbe ammazzarli da piccoli, ma per fortuna non tutti i genitori sono così

scritto da Fabio Cori Carlitto il 11-02-2015 17:57
Mentre seguivo una trasmissione sul calcio giovanile in una tv locale, un mister esclamò: "I genitori? Bisognerebbe ammazzarli da piccoli..." Ecco, ora senza prendere alla lettera questa frase, detta anche con una buona dose di umorismo, possiamo capire come i genitori in alcuni casi possono influire, interferire ed influenzare in modo assoluto il proprio figlio.

Partiamo dal presupposto che ogni genitore è chiamato a "formare" (o quanto meno dovrebbe) la personalità del proprio bambino, facendolo crescere in modo sano dandogli e soprattutto facendogli osservare, precise regole e divieti. E' la famiglia quindi il primo "serbatoio educativo", il primo ambiente in cui il bambino viene abituato a cosa è bene o cosa è male, dove dovrebbe sentirsi dire anche qualche "no" oltre ai numerosi "sì" che quotidianamente è abituato a ricevere. Ora, noi istruttori di scuola calcio non possiamo e non pretendiamo di sostituirci ai genitori, perché non dobbiamo insegnare l'educazione a nessuno, però oggi andiamo ad allenare bambini che a soli otto anni, una volta ripresi per qualche comportamento non consono, anziché redimersi o vergognarsi, ti ridono in faccia. Probabilmente, al giorno d'oggi, si è perso il concetto di "autorità" ed è sempre più difficile fare il genitore. Spesso i bambini che vengono al campo non sono abituati a perdere, ovvero vengono accontentati in tutto e per tutto dai loro genitori e questo "disagio" si scontra con la realtà del gruppo dove ognuno di loro diventa uno qualunque. E noi istruttori ci troviamo quindi a essere chiamati a infondere in loro il concetto di spogliatoio, di squadra, di unione, di collettivo e che esiste una sola realtà chiamata gruppo formato da tanti singoli che sono egualmente considerati, dove tutti sono importanti ma nessuno è indispensabile.

La visione del genitore: "la rivincita"

In molti casi, la visione del genitore è nettamente all'opposto di quella del mister: molti papà (o mamme) vorrebbero che il proprio figlio segnasse gol a valanga e che giocasse sempre e comunque. Quel che è peggio è che invece di portare al campo il figlio per socializzare, per farlo crescere con gli altri, per farlo divertire o semplicemente per fargli praticare dello sport, lo caricano di responsabilità, lo disprezzano se non riesce o lo esaltano se lo vedono fare certe cose, dimenticando che si tratta pur sempre di un bambino. Addirittura, nella mia esperienza, ho incontrato una mamma, il cui figlio di otto anni effettivamente era "positivamente predisposto" al gioco del calcio, che una volta mi confidò: "speriamo mi faccia passare una bella vecchiaia...". Ma come si può caricare una simile responsabilità sulle spalle di un bambino di otto anni? Come si può pretendere che lui, che deve pensare solo a giocare e a divertirsi, possa un giorno giocare in serie A? Spesso il proprio figlio è vissuto come un "prolungamento di se stessi" e rappresenta la propria "rivincita" sulla vita. Si proiettano su di lui desideri insoddisfatti e sogni non realizzati, creandogli false e sbagliate aspettative. Se per esempio, in mezzo al campo subisce un fallo, si reagisce violentemente contro l'autore perché è come se quel fallo lo avesse subito lo stesso genitore, ovvero la parte di se stesso a cui si tiene di più, quella proiettata sul figlio. Il genitore così vive tutte le esperienze del proprio figlio (anche per esempio quelle negative come la panchina o l'esclusione dalle convocazioni) come se fosse lui a farle, interpretando le sue sconfitte come se fosse lui il perdente, esaltandosi invece anche eccessivamente se il figlio vince. Questo atteggiamento è captato dal bambino, molto sensibile agli stati d'animo del genitore ed al modo in cui egli si comporta o parla con lui. Quindi se dopo aver perso una partita il piccolo vede il genitore abbattuto, silenzioso e critico, oppure dopo una vittoria lo vede euforico come se avesse portato a casa la Coppa del Mondo, l'idea che si fa è che sia accettato da lui solamente se vincente. Ciò può portare il bambino ad un errato approccio alla partita, affrontando la stessa solo con l'obiettivo di non perdere, per evitare la delusione e l'insoddisfazione del proprio genitore.

Diamoci un freno

Dobbiamo frenare e fare un passo indietro. Io non ho mai fatto sentire "fenomeno" nemmeno bambini che facevano cinquine di gol a partita... così come non ho mai fatto sentire "brocco" chi era meno dotato o predisposto per il gioco del calcio. Il genitore, "attaccato alla rete", che si intrufola nello spogliatoio con una scusa banale, che segue passo-passo il proprio figlio, che urla quello che deve o non deve fare in campo, che magari poi a casa gli fa "ripetizioni calcistiche" (e ne ho conosciuti...) vorrebbe solo un protagonista in campo: il proprio bambino. E allora mentre tu sudi le proverbiali sette camicie per insegnargli a passare la palla ai compagni, lui si giustifica così: "ha detto mio padre che devo andare da solo dritto in porta..." "ha detto mio padre che devo giocare attaccante" "ha detto mia madre che i rigori li devo tirare io"... Ecco il nocciolo della questione: bisognerebbe astenersi dal suggerire ai propri figli i propri punti di vista, di esprimere giudizi sui compagni di gioco, di interferire nelle scelte tecniche, di esprimere giudizi sul nostro operato, anche perché noi istruttori cerchiamo di sviluppare le potenzialità del bambino, intese non solo come capacità tecniche ma anche, come sottolineavo prima, come capacità di socializzazione in un gruppo. Il genitore non si rende conto che istruttore rappresenta per il proprio figlio una figura di riferimento importante, che il bambino tende ad idealizzare e che le critiche al tecnico possono disorientarlo. L'istruttore di scuola calcio ha un ruolo ben diverso da quello del tecnico delle squadre che si seguono in televisione, in quanto egli è prima di tutto un educatore. Non ci si può, quindi, limitare a valutare il suo operato esclusivamente dal numero delle vittorie e dalle sconfitte raccolte, ma bisogna predisporsi a valutare sotto un'ottica diversa il suo lavoro. Molto spesso, il genitore è concentrato esclusivamente sul risultato (inteso come vittoria, sconfitta, pareggio) mentre non coglie aspetti particolari quali la corretta esecuzione di un gesto fondamentale come, per esempio, effettuare uno stop di petto o colpire la palla di esterno: questi sono i veri risultati. E allora...lasciamoli giocare e divertirsi, perché, a quest'età, ne hanno tutto il diritto. Spesso sulle tribune gli animi si scaldano e a volte volano parolacce, insulti ed offese rivolte soprattutto agli arbitri e, ancora peggio, ai piccoli calciatori che sono in campo. Protagonista assoluto di questa cattiva abitudine, il pubblico che assiste alle partite di calcio giovanile, che è costituito, ahimè, proprio dai genitori che sono i primi "tifosi" della squadra dove giocano i propri figli. Il problema fondamentale è di cultura: perché inquinare una sana esibizione di sport, un confronto tra dei bambini, dando un cattivo esempio e una pessima immagine di sé? Perché invece di sostenere i propri beniamini, incitandoli positivamente, ricorriamo all'offesa degli avversari? Purtroppo si preferisce sottolineare negativamente le qualità tecniche o fisiche di un bambino invece di incoraggiarne le prestazioni sportive, dimenticandosi il senso del "rispetto". Addirittura si arriva ad offendere anche bambini che giocano nella stessa squadra dei propri figli, perché li si ritiene inferiori, perché "danneggiano la squadra" e si sentono frasi tipo "ecco entra lui, adesso fa almeno un autogol" "quello? Ma quando segna..." "ma che fa il mister? Vuole perdere la partita?" "è uscito mio figlio ed è entrato quello?" Si creano inoltre anche delle antipatie tra gli stessi familiari dipendenti dal fatto che quello gioca sempre, quello non esce mai...Questo atteggiamento, inoltre, può indurre il bambino, che tende ad imitare il genitore, all'abitudine di criticare tutti, proiettando sugli altri (compagni, arbitro, ecc...) il motivo di una sconfitta, senza riconoscere invece le proprie "responsabilità" o "errori". Dobbiamo cercare tutti, addetti ai lavori e non, a recuperare, come dicevo prima, quel senso di rispetto; rispetto che dobbiamo anche ai direttori di gara, uomini che sbagliano come tutti, uomini che sono ogni sabato o domenica il facile bersaglio di compilation di "antipatici complimenti" e che molto spesso, nel calcio giovanile, sono proprio dei genitori che si mettono gentilmente a disposizione.

Un Educatore della Scuola Calcio

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